Pensieri

Sono giorni che sto riflettendo su due argomenti, apparentemente così slegati fra loro.
Da alcuni mesi, i paesi arabi che si affacciano sul mediterraneo – ma non solo loro – sono attraversati da un vento di rivolta che modifica i vecchi equilibri, incrostati da 30-40 anni. Tunisia, Egitto, Libia, Marocco in misura minore, Yemen, Bahrein ed ora Siria stanno vivendo momenti di apparenti moti popolari, risorgimentali. Non ho usato a caso la parola risorgimentale: sembra una catena di eventi, simile al 1848 europeo, durante i quali in luoghi diversi, apparentemente senza connessioni che non fossero culturali, si sono sviluppati movimenti locali che hanno portato a rivoluzioni politiche.

Apparentemente, dicevo. Un'analisi un po' più attenta del 48 europeo infatti mostra qual'era il fil rouge che conduceva l'azione (ovviamente questa connessione non la raccontano a scuola, dove continua a vigere il tabu sul risorgimento italiano, perpetrato ancora nelle giaculatorie idiote del 150° dell'unità d'Italia). Per i paesi arabi d'oggi l'analisi deve ancora iniziare. Sono giorni, appunto, che mi chiedo il perché di queste catene di insurrezioni.
Al Qaeda, dicono coloro ai quali parlo di questi miei pensieri. Sorrido a loro, prendendomi gioco della loro capacità di analisi. Ammesso che Al Qaeda esista veramente come organizzazione autonoma (a parte alcuni attentati ad essa attribuiti, che fa? qual'è il suo vero progetto?) che, come ci ricordano quasi giornalmente, si fonda sul fondamentalismo religioso, nelle rivolte di questi ultimi mesi un fattore appare chiarissimo: l'assenza pressoché totale del fattore religioso, anzi, una sottolineatura della svolta occidentalizzante dell'impronta politica. Non sono rivolte fatte nel nome di Allah, anzi, non viene quasi mai sottolineato. L'unico che lo richiama è Gheddafi, che non è dalla parte della rivolta. Né in Egitto, né in Tunisia, né in nessun altro paese soggetto a movimenti di rivolta si parla di religione. Solo Assad parla genericamente di rivolta fondamentalista in Siria, ma li nessuno sa cosa stia succedendo in realtà in quel paese.

Vediamo invece chi si muove dietro a queste rivolte: praticamente senza eccezioni si tratta di figure di secondo piano dei regimi esistenti. Ovunque: in Egitto, in Tunisia, in Libia. E in ognuno di questi paesi ci sono regimi instaurati da 30-40 anni, a volte anche più. Viene il sospetto di rivolte di palazzo, di lotte di potere per la successione.
Ma perché tutte insieme? Qui la domanda rischia di diventare sulfurea, e di trovare spiegazioni nell'improvvisa "volonterosità" di alcuni paesi occidentali come dimostrano le cronache di questi ultimi giorni. Mi spiego: il dubbio che queste rivolte, come quelle del 48 europeo, siano pilotate da qualcuno – elemento ribadito da ciascuno dei dittatori rovesciati o rovesciandi – è più che legittimo. In Libia mi pare addirittura palese: l'interventismo francese e inglese, l'imbarazzo incapace italiano, lo sdegno tedesco e il balbettio americano mi paiono più che evidenti. Per inciso, l'Italia è il primo partner commerciale libico, seguita dalla Germania.
Io credo che le lotte di successione interne, accuratamente aiutate dall'esterno – e l'esterno siamo noi occidentali – siano la spiegazione più plausibile di questi eventi. Eventi che servono, peraltro, alla disinformazione ad uso delle popolazioni nei modi più disparati. Non c'è nessuno che faccia notare che gli sbarchi di Lampedusa NON sono legati alla crisi libica: sono sbarchi di tunisini che fuggono dal loro paese (ma come? non c'è stato un moto di libertà da loro?): in compenso ci si può sbizzarrire sul sentimento più basso della gente, sulla pancia, sul portafoglio, nascondendo e mostrando secondo necessità.

Il secondo punto sul quale sto ragionando da giorni riguarda la crisi nucleare in Giappone. La follia di costruire oggetti di questa pericolosità in luoghi oggettivamente rischiosi dal punto di vista naturale oggi emerge in tutto il suo orrore. Un incidente di questo genere, in Giappone, faceva parte delle possibilità. Un terremoto devastante è qualcosa che in quell'area si ha mediamente ogni 30 anni. E anche le conseguenze collaterali (tsunami) fanno parte del rischio principale. Eppure, nel paese del kaizen e dell'onore da salvaguardare con il suicidio ci sono state falle ai sistemi di sicurezza (la crisi deriva dal fatto che hanno ceduto i sistemi di raffreddamento d'emergenza dei reattori, resi inutilizzabili dallo tsunami) tali da condurre – oramai è evidente – alla catastrofe. Rimane solo da vedere quale sarà il contorno di questo disastro, anche se temo che sarà devastante, sicuramente per l'intero Giappone, ma probabilmente per il pianeta stesso.

Perché i due eventi sono, secondo me, correlati? Perché dietro ad entrambi si muove l'energia dell'economia liberista, quella per la quale l'economia è un'entità dotata di legittimazione propria che trascende lo scopo originale, ossia quello di essere un'espressione della convivenza del genere umano, un'espressione della società. Economia che deve solo a sé stessa, e non all'uomo che l'ha creata. In fondo, il vero HAL9000 dei nostri tempi non è il supercomputer impazzito di 2001 odissea nello spazio, ma l'economia autoreferenziale.

Class action

Ricevo una strana lettera. Senza gli occhiali faccio una fatica improba a capire di che si tratta. Mi rendo conto che non ha busta, si tratta di un modulo di carta pesante ripiegato e sigillato.
Viene dagli USA. Immediatamente mi torna in mente una contravvenzione che ho preso quest'estate, e comincio a preoccuparmi. Trovo gli occhiali e guardo meglio. Apro.

Tre fogli, molto fitti di informazioni. Leggo il summary. Mi dicono che mi scrivono perché dai files della Hertz ho noleggiato un'auto a Las Vegas fra il 2003 e il 2009. Vero. Proseguo la lettura. Capisco che si tratta di una class action. Mi dicono che, nel caso si vinca la causa, avrò diritto al rimborso di ben 10 dollari da usare in un prossimo noleggio.

Sollevo gli occhi dal foglio. Una class action per 10 dollari, su decine di migliaia di noli d'auto. Nulla per il fruitore, una botta per la Hertz. Eppure, negli USA fanno così, e gli avvocati non chiedono nulla agli attori della causa: se vincono, saranno pagati dalle spese processuali, se perdono avranno buttato il loro tempo e i loro soldi, avendo scritto a migliaia e migliaia di persone che hanno noleggiato, creando siti internet per collezionare le informazioni…
Leggo il documento, che spiega con molta semplicità le cose essenziali, cosa, come, dove, quando, quanto costa, cosa ricavi.

Appoggio il foglio e penso a noi, a coloro che sono stati coinvolti nel crack Cirio, in quello Parmalat, e alla loro pia illusione di riuscire ad ottenere giustizia, con i maggiori responsabili che non sono girano a piede libero, ma hanno potuto tranquillamente far sparire prove e denaro, mentre tanta gente è rimasta sul lastrico.

Penso a quanto sia diversa una giustizia che funziona. Penso a quanto sia semplice, senza tanti fronzoli procedurali, e rifletto a quanto ci piglino in giro quando parlano di riforma della giustizia inserendo norme che rallenteranno ancora di più la macchina fino ad arrivare alla conclusione che non ci sarà mai più giustizia.

Mi piacerebbe che qualcuno parlasse degli USA citando questi esempi, quando ci si vuole confrontare con loro, e non raccontando balle sulle intercettazioni. Ma si sa, noi siamo italiani, nel bene e nel male.

L'orco è fra noi

Questa è la frase pronunciata dal parroco del paese della sventurata ragazzina uccisa fuori dalla palestra. Un urlo di dolore, come se per tre mesi si fosse cercato di neutralizzare questo pensiero, di tenerlo lontano affidandosi a speranze assurde.

L'orco è fra noi. L'orco è in noi, aggiungo io. Si presenta nell'apatia con la quale permettiamo che i giovani vedano come modelli di vita i Fabrizi Corona o le Belen di turno. Si presenta con il disinteresse con il quale consideriamo ineluttabile che il civismo sia considerato una cosa antiquata. L'orco è nel giovane con le cuffiette nelle orecchie e lo sguardo spento che, seduto nel metrò, non cede il posto alla nonnetta, o alla signora con il pancione. L'orco è quando frodiamo il fisco, è quando buttiamo la carta per terra.

Si dirà: ma non scherzare! un conto è sporcar per terra, un conto è ammazzare una ragazzina. E' vero, sono due livelli ben diversi. Eppure, ciò che accomuna i due comportamenti, è considerare che, comunque, prima ci sei tu, il tuo interesse, il tuo piacere; poi, eventualmente, ci sono gli altri. E quindi, in una mente malata, se la ragazzina ti attira, tu approfitti della tua superiorità di adulto, della tua forza, della tua astuzia, e approfitti di lei, perché questo è il tuo piacere.

Nessuna ronda potrà salvarci dall'orco. Solo dei valori condivisi, veri, pieni, possono limitare la sua azione. Mai arginarla totalmente.

Legittima difesa

Oramai otto anni fa, in una sera di maggio in pieno centro di Milano, ci fu una rapina dentro un tabaccaio, in piazzale Baracca. Non era la prima rapina che quel tabaccaio (grande bar, tabaccheria e botteghino di schedine varie) subiva. Ma quella sera reagì. Estrasse la pistola dal cassetto e, dopo aver sparato alcuni colpi nel locale già in chiusura, inseguì i banditi nella via affollatissima (le 7 di sera in quella zona di Milano sono ora di traffico) sparando loro alle spalle. Ne uccise uno e ferì l'altro.

Oggi si fa il processo d'appello, e il pg ha chiesto una condanna dura per il tabaccaio, considerando l'omicidio volontario. In effetti i due banditi erano in fuga, non lo minacciavano più. Quello che, ancora una volta, non si considera è che il tabaccaio sparò alcuni colpi (si dice tre, ma le cronache di allora parlano di molti di più) in mezzo alla folla, incurante dell'incolumità dei malcapitati che si trovavano a passare da quelle parti, uscendo dai posti di lavoro o dirigendosi nei negozi del quartiere per un acquisto.

Ovviamente alcune parti politiche trovarono edificante cavalcare l'episodio, per far da grancassa alla richiesta di possibilità di uso delle armi a propria difesa.

Riporto la lettera, oggi ripubblicata dal Corriere, della sorella del rapinatore ucciso. Una lettera di una dignità, e di un equilibrio che mai ho sentito nei nostri politici. Consiglio caldamente la lettura.

 

Come prima cosa voglio spiegare il perché abbia deciso di usare questa forma di comunicazione, per far conoscere il mio pensiero su quanto è accaduto in questi giorni intorno a me. Mi sono resa conto che sia giusto, per me, per mio fratello Alfredo e per quanti lo hanno conosciuto nel corso della sua, ormai finita, vita, far chiarezza su alcuni punti, ma senza per questo scendere con il mio viso e la mia figura nell' arena mediatica che si è creata intorno a quanto accaduto sabato scorso in via San Vittore. Mi sono resa conto che quanto successo ha creato le condizioni necessarie affinché si sviluppasse un dibattito su argomenti fondamentali tanto nella politica quanto nella vita sociale, in particolare in riferimento alla cosiddetta «questione sicurezza» e all' uso delle armi da parte dei privati cittadini. Ma a me, Micaela Merlino, tutto questo non interessa.

A me interessa solo di una cosa. Che da sabato sera non ho più un fratello. L' unico familiare che avevo. Da quella sera ho letto, con estremo e, fino ad ora, privatissimo dolore, parole assolutamente lontane dalla realtà che avevo vissuto fino a venerdì scorso. La famiglia della persona che ha premuto il grilletto ha più volte invocato un incontro con me, perché la famiglia di Alfredo Merlino ero solo io. Io avevo scelto la via meno facile, forse, ma più rispettosa della mia natura, ovvero il silenzio. Non mi è stato possibile. Mi sono quindi rivolta ad un legale che facesse da «filtro». Questo mi deve permettere di preservare la mia vita futura. Mio fratello non c' è più. Questa è l' unica certezza che ho ora.

Ma chi era mio fratello? Mio fratello era un ragazzone di quasi 1 metro e 90 che intorno ai 18 anni prestò il servizio militare negli Alpini fino a decidere di andare, volontario, in missione in Mozambico. Un ragazzone che si trovò poi a condurre una vita che non ho mai condiviso. Nel 1993 con mia madre scoprii che aveva accettato di conservare per un suo conoscente un' arma in casa nostra. Lui che le conosceva tanto bene e che sapeva come maneggiarle. Io e mia madre ne fummo spaventate. E non avemmo timore nell' andare a denunciarlo. L' arma venne trovata su nostra indicazione e lui condannato alla sua prima pena. Che venne scontata agli arresti domiciliari. Ma che non servì evidentemente a correggere la traiettoria di una vita sbagliata. Lui decise di andare via di casa. Si sottrasse al nostro controllo e si creò una vita da solo. Entrò nel tunnel angosciante della tossicodipendenza. Venne giudicato e condannato per altri reati. In nessun caso ha però mai fatto del male a nessuno. Non vi è traccia di violenza contro le persone nel suo casellario. Arrivò una condanna più corposa delle altre e si trovò a dover scontare oltre tre anni di carcere. Nel corso di questi tre anni perse la madre per un male incurabile e non poté partecipare ai funerali.

Nel mese di ottobre 2002 uscì di carcere e io decisi di accoglierlo nuovamente in casa. Cercai ancora una volta di fargli capire che la via intrapresa andava abbandonata. Qualche cosa sembrava essere cambiato in lui.
Gli trovai lavoro come magazziniere. Ma quel lavoro non durò a lungo. Ne aveva forse trovato uno nuovo ma che necessitava della patente di guida, che non aveva mai preso. L' ho quindi visto lavorare come cameriere per pagarsi la scuola guida. Per la prima volta l' ho visto studiare. Ma dentro di me non potevo fare altro che sperare che fosse tutto vero. Anche se la paura di vederlo tornare nel baratro l' ho sempre avuta. Ma era mio fratello e non potevo abbandonarlo.
Il 14 maggio ha preso la patente. Da quello che mi ha raccontato, il 15 maggio ha iniziato a lavorare. L' ho visto uscire di casa alle 7 di mattina per due giorni. Poi è arrivato il 17 maggio. Ed è accaduto ciò che è su tutti i giornali.

Io non so come siano andate esattamente le cose. E la mia fiducia nell' istituzione Magistratura è assoluta. Sono convinta che il lavoro degli inquirenti sarà preciso e coscienzioso. Ma so anche che altre figure istituzionali sembrano dimenticare che su quel marciapiede è finita la vita di un cittadino che ha sbagliato, più volte, ma che per ogni suo errore ha sempre puntualmente pagato e che non ha mai perso la sua dignità di uomo.
Una persona che ha condotto una vita che condanno e che ho sempre condannato. Ma anche una persona che era mio fratello. E per la quale ho cercato di fare sempre tutto quanto in mio potere per evitare che finisse così. Per la quale oggi non posso altro che chiedere giustizia. Non la giustizia di una vittima assoluta. Perché qui le vittime sono più di una. Ma la giustizia di chi ha sempre pagato, ma che questa volta ha dovuto saldare un conto troppo salato per il suo, pur ingiustificabile, errore.

Dentro di me sono convinta che in Alfredo, per quanto vi fossero mille difetti, non vi sia mai stata la volontà di uccidere nessuno. Cosa che lo ha spinto a non portare neppure con sé un' arma. Ma oggi queste sono solo congetture perché Alfredo non è più con noi. O meglio, con me. E questo non è un sollievo, come qualcuno ha scritto, ma solo un dolore.

Micaela Merlino sorella del rapinatore ucciso

Politica e non

Oggi tutti stanno discutendo sulla riuscita della manifestazione di ieri di Milano. Da mesi ci fratturano le gonadi con le perversioni sessuali del nostro premier, spacciando queste stupidaggini (e i litigi di comari fra i vari partiti e partitini) come l'alta politica.

Poi, distrattamente, ti avvisano che Marchionne è andato a trovare il governo per dirgli che lui ha le mani libere, che non gliene frega un accidente di quello che succede in Italia dal punto di vista sociale, ciò che importa è che la Fiat abbia le mani libere. Certo, investiremo (e qui il naso si allunga), ma solo se ci converrà.

Ovviamente, questa che è Politica, in quanto decisione sul modello di società, viene relegata nelle pagine interne, oppure nascosta in fumosi proclami sulla modifica dell'articolo 41 della costituzione (senza nient'altro aggiungere). Ma che c'è dietro a tutto ciò? Secondo me, l'unica questione di politica vera da anni a questa parte: si sta discutendo del ruolo del lavoro e dell'impresa nell'ambito della società.

Nell'articolo 41 un comma riecheggia il primo articolo della costituzione: la repubblica è fondata sul lavoro. Nel 41 si specifica che l'iniziativa privata è libera, ma deve avere un'utilità sociale. In altri termini, l'impresa ha ampia libertà, ma non può essere fine a sé stessa. La logica di fondo è che l'economia stessa deve essere al servizio della società, dell'uomo, e non il contrario. Il vento liberista (non liberale, che è tutt'altra cosa…) che ammorba il mondo da una trentina d'anni a questa parte invece pone come valore assoluto l'economia, e non la società. Se si tolgono le sovrastrutture fumose con le quali ce lo stanno propinando, e si guarda l'essenziale, si capisce subito che si tratta di un orrore pari alle ideologie naziste: la totale alienazione dell'organizzazione sociale dall'uomo. Non più l'economia al servizio, espressione della vita umana, ma l'uomo prono davanti a questo totem i cui diritti possono calpestare quelli dei cittadini.

Per sostenere questa visione ci spacciano la visione della società felice, del mulino bianco, piena di cose graziose e di bisogni artificiali, che la fantastica economia globale è in grado di soddisfare… Già, il mondo in rosa. Peccato che questo sia un sogno che, se proviamo ad analizzarlo seriamente, non ha un minimo di supporto razionale. La globalizzazione dell'economia è servita per abbassare il costo della mano d'opera inizialmente, ma soprattutto per allargare il mercato globale delle poche, grandi aziende monopoliste, in una rincorsa a nuovi acquirenti che possano assorbire il surplus produttivo. Cosa succederà alle popolazioni, non fa parte dei dati del problema, se non dal punto di vista della capacità economica di queste.
Si dirà: più soldi per tutti, di che ti lamenti? Io rispondo: ma siamo proprio sicuri che sarà così? Di sicuro, ed è evidente, alcune popolazioni del mondo andranno incontro a una diminuzione globale delle loro capacità economiche (sto parlando del mondo occidentale…). Le popolazioni in via di sviluppo avranno quel tanto che basta per partecipare ai nuovi mercati. Tuttavia, le risorse globali non sono infinite, né sono infiniti i mercati. In sostanza, il liberismo prospetta una struttura economica molto simile alle catene di marketing piramidale, che fa la fortuna di chi sta in cima, e la rovina di chi sta in fondo…

Ovviamente, ragionare su questi punti potrebbe essere pericoloso. Per cui, ben vengano le pruderies sulle trombate di Berlusconi o sulle azioni da magliaro del Fini-cognato. Mettiamoci pure sopra un po' di sano reality, tette e culi ben spalmati, et voilà, la fregatura è servita!

Ci dicono che quando c'erano le ideologie il mondo era schematico. Certo, le ideologie erano schemi interpretativi, ma non pensate che le ideologie siano sparite. Che è il liberalismo, infatti? Una serie di assiomi indimostrati ed indimostrabili, e una concenzione da paura della società.

Marchionne e i sindacati

Mentre nei tg impazzano le ultime vicissitudini di Berlusconi con le minnorenni (ma che novità, già lo diceva due anni fa sua moglie…) la Politica si fa altrove. Non in parlamento, non al governo. Si fa nei pochi posti dove oramai c'è dibattito: si fa alla Fiat, fra i sindacati e Marchionne.

Da un lato si tende a minimizzare, a far pensare che si tratti solo di una discussione di bread and butter. Non è così, non ci sarebbe bisogno di fare ciò che ha fatto Marchionne per gestire una questione di pura organizzazione interna che poteva essere delegata a contrattazione aziendale separata. Quello che c'è stato di dirompente è l'interrompersi di un metodo che prevedeva da un lato le aziende, dall'altro i lavoratori, ciascuno inquadrato in un suo proprio sindacato, Confindustria da una parte e i sindacati dei lavoratori dall'altro. I vantaggi del metodo precedente erano probabilmente tutti per i lavoratori, soprattutto per quelli delle aziende meno performanti o di quelli delle piccole aziende: una trattativa contrattuale collettiva infatti trascina i più deboli grazie alla forza degli altri. Marchionne ha rotto prima il proprio fronte, uscendo da Confindustria, poi ha cercato di rompere il fronte avverso. Una contrattazione piena, solo che stavolta non è solo business, ma è anche, e molto, politica.

Non credo che Marchionne abbia in mente di far politica. La sua uscita credo fosse mirata solo ad ottenere il massimo risultato nel minor tempo possibile, fare il belletto a Fiat Auto per poi venderla al miglior offerente, visto che le dimensioni critiche Fiat Auto non le potrà mai raggiungere, dopo il veto dei tedeschi di Opel un anno e mezzo fa. In effetti, se ci si fa caso, i cassetti degli uffici tecnici di Fiat sono desolatamente vuoti: le auto di successo di Marchionne non si devono alla sua guida, ma a quella dei predecessori, che hanno messo in pista progetti interessanti ed attraenti, cercando di valorizzare il prodotto. Nulla di tutto questo ha fatto Marchionne: trascorsi i fatidici 5 anni di sviluppo dei progetti auto, non c'è nulla all'orizzonte.

Nonostante che Marchionne non intendesse far politica, tuttavia la sua azione lo è stata. E' il cambiamento totale del concetto stesso di relazioni sindacali. E' l'apertura della strada, per ogni azienda che lo desideri, di discutere con i propri lavoratori direttamente delle condizioni contrattuali, senza far capo ad un accordo di categoria. Come dicevo prima, grande vantaggio soprattutto per le aziende piccole i cui lavoratori non hanno la forza contrattuale che possono avere quelli di una grande azienda. Di sicuro, una sconfitta strategica per i sindacati, che non son stati capaci di capire a fondo i contorni dell'episodio e discutendo come i polli di Renzo son finiti in padella loro e i loro rappresentati.

Sonno dell'attenzione

"E' nostro dovere e nostro diritto richiedere una commissione parlamentare d'inchiesta sull'operato di certi magistrati". (S. Berlusconi – 3 Ottobre 2010)

Art 101della Costituzione Italiana: "La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge"
Art 104:"La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere"

E' curioso che sia dopo l'esternazione "di lancio" fatta la sera del compleanno, archiviata come una serie di pensieri in libertà da baldoria conditi in salsa barzellettiera antisemita, sia oggi nessuno abbia fatto notare quanto sia eversiva una richiesta in questo senso.

Dalla nascita dello stato moderno, poco prima della rivoluzione francese, è stato chiarissimo che i poteri dello stato devono equilibrarsi, per evitare di cadere in situazioni nelle quali ci si avventura in percorsi rischiosi. Ma qui, in Italia, oggi, ci si dimentica di questo. Si sbraita se c'è un processo per il quale esiste una condanna definitiva dal quale appare chiara la responsabilità di Berlusconi, e si dimentica che l'uomo più potente della terra, il presidente degli Stati Uniti, può essere messo sotto accusa in ogni momento (e a momenti Clinton non finiva arrosto per aver mentito su di un rapporto sessuale).

Siamo in una condizione di diritto limitato. Tristissima.
Ancora più triste è constatare che agli italiani non si aprono gli occhi.